“Così ho vinto il cyberbullismo”

Il racconto di chi ci è passato per far sì che nessun altro debba passarci

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La chiameremo “Giovane”. E lo faremo non solo per motivi di privacy, ma perché la sua è la storia di tanti, forse un po’ di tutti. Purtroppo. Ragazzi e ragazze che abbracciano il digitale con la naturalezza con cui un tempo si accendevano radio o tv. “Ma ora è diverso” corre l’obbligo di dire. Eppure è con la stessa naturalezza che scorriamo il nostro profilo social, carichiamo foto, video, commentiamo. Fa parte di noi, del mondo dell’oggi e del domani. E non può essere demonizzato: sarebbe stupido. E soprattutto inutile.

Va ben detto che in tv ci sono volute decine d’anni prima che si parlasse di fasce protette, “bollini” e parental control. Ed è questo il punto: a tema sicurezza digitale e social per i ragazzi stiamo rincorrendo un jet con una diligenza da vecchio west. E neanche i migliori “Pinkerton” potrebbero farci tenere il passo. Crederlo non solo sarebbe follia, ma una sconfitta annunciata. Se a questo aggiungiamo poi l’impossibilità d’imporre buone prassi e sane abitudini agli utenti, quel che ci resta pare banale quanto radicalmente risolutivo: educare. Oggi lo facciamo così, riportando la storia di “Giovane” che ha scritto al nostro giornale per raccontarsi.

“Ciao a tutti, sono una studentessa, e oggi vorrei raccontarvi una vicenda che mi ha vista un paio d’anni fa vittima di cyberbullismo.

La mia più grande passione è sempre stata il make up e per questo avevo deciso, come tante mie coetanee, di aprire un canale YouTube. Spesso trascorrevo i pomeriggi a fare video di varie tecniche di make up base, trucco fotografico, cinematografico, teatrale, televisivo, effetti speciali, face & body painting, smoke eyers, e così via.

Dopo qualche tempo hanno cominciato a giungermi, accanto ad apprezzamenti, anche commenti negativi e dislike. In un primo momento non mi toccavano granché, ma col passare del tempo il loro contenuto ha iniziato a peggiorare. Gli hater hanno preso a schernire il mio aspetto fisico, l’altezza, gli inestetismi cutanei, il modo di vestire e di… essere.

Un po’ alla volta hanno cominciato a inviare insulti dolorosi come: ‘Ma che cosa ci fai ancora al mondo’; ‘Ma che cosa fai, vuoi insegnarci a truccarci, quando non ne sei in grado neanche tu, guarda come ti combini sembri un pagliaccio da circo’; ‘Guardati un po’ allo specchio, sei un cesso vivente’; e ancora ‘Ma cosa vuoi fare con quella faccia piena di acne che ti ritrovi’. E non è finita qui. La cosa è peggiorata.

Agli insulti si sono aggiunte frasi discriminatorie e addirittura pesanti riferimenti alla mia “inutilità” come persona. Al fatto che la mia vita fosse sbagliata. Senza valore. Dentro di me, ogni qualvolta leggevo quei messaggi, era come mi si conficcasse una lancia. E, peggio, mi ferivano al punto da rischiare che credessi a qua to dicevano. 

Avevo iniziato a perdere peso perché non mangiavo quasi più, mi vestito sempre di nero e con abiti larghi per non dare nell’occhio. A scuola stavo in disparte, non parlavo con nessuno. I miei comportamenti erano sempre più compulsivi, finché un giorno, durante una lezione, sono svenuta. Il professore si è spaventato moltissimo e ha insistito ad accompagnarmi in infermeria. Dopo i controlli, mi ha detto che quel mio cambiamento non gli era sfuggito e gli risultava strano, preoccupante.  Con lui mi sono aperta. 

Da quel momento, in più occasioni, ho preso a confidargli il mio disagio, finendo anche per confessare alcuni problemi che vivevo in famiglia: mi sentivo incompresa e abbandonata anche dai miei genitori. Quando mi fece capire che fosse giusto li mettessi a parte del mio dolore e di quello che mi stava accadendo, accettai di parlarne loro. E gli chiesi di essere presente. Convocatoli a scuola, mi ha aiutato ad aprirmi con loro, raccontato la mia situazione. I miei si sono detti allora un po’ in colpa per non essersene accorti, non essermi stati sufficientemente accanto. Mi hanno confortata e appoggiata. Era proprio quello di cui avevo bisogno quel momento. solo di quello.

Anche se da allora ho cominciato ad avvertire il sostegno degli altri, gli insulti sul web continuavano. Anzi. Divennero ancor più pesanti, arrivando a vere e proprie istigazioni a farmi del male, perfino minacce di morte. Ma questa volta avevo qualcuno cui confidare il dolore di quella vigliaccheria. Ne parlai col professore che tanto mi era stato vicino e, con lui, in lacrime, ai miei genitori. Insieme decidemmo che era giunto il momento di chiedere aiuto ad una ‘forza maggiore’ poiché le risposte che tentavo di dare agli hater e le mie richieste di smetterla non stavano sortendo risultati. Ci siamo rivolti alla Polizia postale. Grazie a loro siamo riusciti a bloccare quei vigliacchi ‘leoni da tastiera’. Da quel momento, piano piano e non senza fatica, ho iniziato un percorso di rinascita.

Oggi, dopo molto tempo da quel doloroso periodo, la mia vita è piena e appagante: sono diventata più serena, ma anche più forte, caparbia, sicura di me. Devo dire grazie alle persone che mi hanno aiutata e sostenuta fin o ad ora. Ho anche ripreso a frequentare il web, perché la mia passione è rimasta inalterata e, se possibile, resa più salda e profonda, matura. Se poi arriva qualche critica so distinguere quelle utili e costruttive dalle negative per partito preso. 

Ragazzi questa è la mia storia: oggi posso dire di capire perfettamente le vittime di bullismo o cyberbullismo, Non solo: se posso le aiuto. Condivido volentieri con loro la mia esperienza e cerco di far aprire gli occhi a chi di questo tema sembra infischiarsene. Se a voi non è mai capitato di subire certe situazioni non dovete pensare che la cosa non vi tocchi: tocca tutti. E tutti dovremmo fare la nostra parte perché certe dolore situazioni non si verifichino più .

Ma soprattutto, se state vivendo un momento difficile: fatevi aiutare. Confidatevi, parlatene, chiedete. Ricordate sempre che non siete soli. E l’unico modo per far capire che avete bisogno di aiuto, è dirlo“.